La Giordania svolge un ruolo marginale nel’attuale processo di pace. Eppure gode di indiscutibili vantaggi geopolitici che potrebbero farle avere un ruolo chiave, se solo Re Abdallah II avesse più iniziativa e fosse più consapevole delle potenzialità di Amman
I negoziati di Washington
I colloqui che si sono svolti una settimana fa a Washington hanno attirato l’attenzione di gran parte dei media in tutto il mondo. L’inizio di nuovi negoziati tra il premier israeliano Benjamin Netanyau e il leader dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas in presenza di Barak Obama ha inevitabilmente sollevato l’interesse dei leader politici dei cinque continenti, che hanno osservato con grande coinvolgimento il primo meeting per la definizione della nuova road map.
Non è altrettanto nota, invece, la presenza del leader egiziano Mosni Mubarak e del Re giordano Abdallah, e nei principali articoli sull’argomento pubblicati dalle testate internazionali raramente è stata dedicata più di qualche riga alla presenza di questi due osservatori privilegiati. Se tuttavia nel caso dell’Egitto il presedente Mubarak si è distinto per l’impegno e la volontà di attivarsi direttamente nel processo di pace (per esempio con l’offerta di ospitare i colloqui di metà settembre), il ruolo della Giordania è stato avvolto da un silenzio quantomeno sorprendente, soprattutto se si considera l’influenza del regime Hashemita negli eventi mediorientali durante l’ultimo cinquantennio.
La Giordania non solo potrebbe svolgere un ruolo rilevante nello scacchiere mediorientale per ragioni storiche, geopolitiche e culturali, ma anzi, dovrebbe essere uno degli attori più motivati ad una partecipazione attiva, dal momento che le key issues del processo di pace si riferiscono a problemi che coinvolgono direttamente il governo di Amman. E non solo in termini politici, ma anche in termini socio-economici, considerando in primis la questione dei rifugiati: secondo i dati UNRWA di gennaio 2010 quasi 2.000.000 di rifugiati palestinesi vivono attualmente entro i confini giordani, e trovare una soluzione a questo problema dovrebbe essere una priorità per Amman. Allo stesso modo, anche sulle questioni che riguardano la definizione dei confini, o le misure relative alla sicurezza, stupisce che la monarchia Hashemita abbia dimostrato così poca iniziativa.
Cos’è cambiato con l’ascesa al trono di Re Abdallah
Raramente Amman ha avuto un ruolo di guida nelle iniziative diplomatiche della regione, preferendo generalmente mantenere un basso profilo nella linea politica internazionale, e restando spesso in una border line tra i paesi occidentali e il mondo arabo. Tuttavia mentre durante il regno di Re Hussein lo Stato, guidato da un leader deciso e carismatico, era considerato un importante interlocutore sia dagli altri Paesi della regione che dai governi occidentali, nel corso dell’ultimo ventennio un indebolimento della posizione politica giordana è più che mai evidente, soprattutto dai primi anni del nuovo millennio caratterizzati dal passaggio del trono da Re Hussein al figlio Abdallah II.
Nel 1999 infatti la morte di re Hussein dopo 46 anni di regno ha rappresentato un momento di svolta per il Paese. Si è parlato della fine di un’era, o addirittura della fine della Giordania stessa, tanto drammatico è stato percepito il cambiamento. Hussein era stato lo “storico sovrano”, in grado di tenere abilmente in equilibrio lo stato giordano nel sistema di alleanze e strategie del Medio Oriente tra gli anni Cinquanta e gli anni Novanta. Con scelte coraggiose e non sempre condivise dalla popolazione (si pensi alla rinuncia ufficiale al territorio della Cisgiordania nel 1988, o all’atteggiamento oscillante nei confronti della politica statunitense in Iraq), Hussein era però riuscito a difendere l’indipendenza giordana, gestendo abilmente anche i rapporti più complessi, come quelli con l’amministrazione americana, con il capo dell’Olp (e poi leader dell’Autorità Nazionale Palestinese) Yasser Arafat, e con l’amico-nemico a Baghdad, Saddam Hussein.
Il figlio Abdallah, primogenito del regnante, è salito al trono nel 1999 tra la sorpresa e lo sconcerto generale. Abdallah aveva sempre mantenuto un basso profilo all’interno della famiglia reale, occupandosi prevalentemente di questioni militari e sviluppando ben poca esperienza nel settore politico-diplomatico. Parte dell’establishment militare dello stato, aveva alle spalle anni di servizio come comandante delle Forze Speciali e del Comando per le Operazioni Speciali.
Salito al trono, Re Abdallah ha preferito mettere in secondo piano le scelte strategiche del paese nell’arena internazionale; si è invece concentrato sullo sviluppo interno, promuovendo riforme nel campo dell’economia e rafforzando le relazioni economiche internazionali, in particolare con gli Stati Uniti (per una crescita degli investimenti) e con l’Iraq, principale fonte di aiuti fino ad allora. La conseguenza diretta di questa politica è stata una posizione incerta di Amman nel quadro della regione, in equilibrio tra forze diverse e contrastanti: da un lato l’influenza irachena non solo economica ma anche politica, potenziale rischio di instabilità all’interno dello stato Hashemita; dall’altro lato, i rapporti con gli Stati Uniti, che hanno generato conseguenze altrettanto complesse: la Giordania è infatti stata a lungo considerata il punto di riferimento USA nella regione, strumento di mediazione nelle relazioni sia con gli Stati moderati filo-occidentali (come Israele, ma anche l’Arabia Saudita), sia con gli Stati radicali anti-americani (ad esempio Siria e Iraq); come tale, ha a lungo giocato il ruolo del debole “Stato-cuscinetto”.
Le potenzialità della Giordania nella regione mediorientale
In realtà proprio quest’ultimo aspetto potrebbe essere il punto di forza di Amman. Re Abdallah, che ha studiato negli USA e talvolta sembra aver più dimestichezza con l’inglese che non con l’arabo, è parte della nuova generazione di leader mediorientali a loro agio nel mondo moderno e occidentale. La sua ascesa al trono aveva fatto sperare in una maggior affinità con i governi occidentali, pur mantenendo gli stretti legami con i Paesi arabi, aprendo la possibilità per la Giordania di giocare un ruolo stabilizzante nella regione, grazie anche alla scelta della leadership di evitare stretti allineamenti con i vicini.
D’altra parte non erano mancati ambiziosi progetti che vedevano la Giordania svolgere un ruolo di primo piano nel processo per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese: per esempio ciclicamente si assiste a nuove proposte miranti a costituire una Confederazione giordano-palestinese. Già negli anni Settante importanti leader israeliani, trai quali l’ex segretario generale del partito laburista Arie “Lova” Eljiav, parlavano di una confederazione trilaterale: Israele, Palestina e Giordania. Lova Eljian gli diede perfino un nome, Isfalur: Is per Israele, Fal per Falstin (Palestina) e Ur per Urdun (Giordania). Nel 1985 un progetto simile era l’obiettivo dei leader di Olp e Giordania quando costituirono una delegazione giordano-palestinese congiunta in preparazione dei negoziati con Israele, Europa e USA; in quel periodo l’Olp era considerata un’organizzazione terroristica, come Hamas oggi, e la Giordania la aiutò ad eludere il boicottaggio internazionale. La leadership dell’Olp e quella giordana immaginavano che, in caso di successo dei negoziati nella creazione di uno Stato palestinese, il passo successivo sarebbe stato la confederazione fra Palestina e Giordania. Ancora, l’idea della confederazione era stata promossa dall’ex primo ministro giordano, ‘Abd al-Salam Magali, nei primi anni Duemila, ma gli incontri erano stati interrotti bruscamente in seguito all’ascesa al potere di Hamas a Gaza. Più recentemente Benny Morris, parte dei cosiddetti “nuovi storici” israeliani, ha proposto nel saggio “Due popoli una terra” la creazione di una grande Giordania che includa i territori della Cisgiordania. Secondo l’autore questa decisione troverebbe la ragione d’esistere in questioni di carattere geografico (accesso alle risorse), geopolitico (dimensioni territoriali e servizi di sicurezza) e demografico (redistribuzione dei profughi).
Non era quindi mancato negli ultimi decenni l’interesse verso il Paese, e sono stati numerosi i segni di fiducia e di speranza nel ruolo che la Giordania avrebbe potuto ricoprire per facilitare la stabilizzazione dell’area. Ma recentemente l’interesse della stessa Giordania verso un ruolo così rilevante sembra stia scemando, forse anche in seguito all’aggravarsi di alcune problematiche interne (elevata povertà, continuo aumento di rifugiati in terre giordane, presenza di una forte opposizione islamica radicale).
Di fatto le iniziative sono poche, e Re Abdallah non sembra particolarmente interessato a fare tesoro di alcuni aspetti che gli garantirebbero una posizione di vantaggio rispetto agli altri leader mediorientali. Potrebbe infatti essere lui il principale interlocutore dell’area, mantenendo il ruolo di Stato indipendente e in grado di mediare tra l’Occidente e il radicalismo arabo; lo stesso presidente Barak Obama aveva dato chiari segni di fiducia e apertura nei suoi confronti: non era stato un caso che Re Abdallah fosse stato il primo leader arabo ricevuto dalla Casa Bianca dal Presidente Obama, che aveva visto in lui il rappresentante del mondo arabo moderato filoccidentale. Purtroppo però la politica altalenante e spesso poco chiara nei confronti dei vicini (soprattutto l’Iraq) ha portato ad una riduzione dell’interesse internazionale verso questo possibile mediatore delle problematiche della regione; così lo Stato giordano sembra partecipare ai negoziati di pace quasi solo per la vicinanza geografica ad Israele e ai territori palestinesi, e senza l’iniziativa che ci si aspetterebbe da una Paese così coinvolto dalle dinamiche geo-strategiche dell’area.
*Silvia Zanolin, laureata in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università degli studi di Trieste, collabora con enti internazionali ed istituzionali
Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”